interscambio negato

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Messaggioda manfroi » 21/06/2019, 6:45

tra 2 comuni. A voce mi hanno detto che non mi daranno il nulla osta per la motivazione x (non voio riportarla per non svelare l'identità ne per dargli man forte se avessero ragione loro e leggessero). siamo stessa posizione giuridica ma diversa posizione economica, entrambi full time e, nessuno di noi categoria protetta. Quali possono essere validi motivi per negarla? basta un motivo qualunque o servono motivi specifici e validi altrimenti l'amministrazione sarebbe soccombente? es. se dicesse che il curriculum della controparte è meno buono del mio o che non è di loro gradimento per qualche motivo? ci sono casi di interscambi negati? e con quali motivazioni? e giurisprudenza in merito? grazie
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Re: interscambio negato

Messaggioda SaraTrib » 21/06/2019, 11:41

Credo l'amministrazione abbia libero arbitrio in merito.
Non è tenuta ad accoglierla pertanto non è tenuta a giustificare né motivare nulla,
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Re: interscambio negato

Messaggioda manfroi » 22/06/2019, 14:07

Leggo pero' questo su un forum:

... tuttavia, poiché non è concepibile un diniego arbitrario, è consentito al giudice sindacare in relazione al consenso negato la rispondenza delle motivazioni a ragioni oggettive di tipo organizzativo e ai principi di correttezza e trasparente gestione del rapporto di lavoro e riconoscere quindi il diritto del dipendente a transitare alle dipendenze di altra Amministrazione" in questo senso un tribunale del lavoro.

come dire... discrezionale nel senso che l'amministrazione puo' scegliere sì o no ma deve esserci un buon motivo o sbaglio?
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Re: interscambio negato

Messaggioda carlomagno » 25/06/2019, 7:30

No e un atto eseguito in regime di lavoro privatistico non deve nemmeno motivare.
Quello che citi e un parere non una norma in tribunale deve portare riferimenti normativi non pareri.
Non ce scritto da nessuna parte che e un diritto.
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Re: interscambio negato

Messaggioda manfroi » 25/06/2019, 18:26

veramente non è un parere ma una sentenza



Il Giudice del Lavoro, dott.ssa Lisa Gatto, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella controversia in materia di lavoro iscritta al n. 1105/2004 R.G.C., promossa

DA
A. A. A. L. e A. L., ;

RICORRENTI

CONTRO
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Capo Dipartimento dell'Organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi

RESISTENTE

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del legale rappresentante pro tempore
RESISTENTE NON COSTITUITO

Oggetto: mobilità esterna per compensazione

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 30 aprile 2004, A. A. A. L. e A. L., premesso di essere, la prima, dipendente del Ministero della Giustizia in servizio presso il Tribunale di Agrigento, con qualifica di Cancelliere (ex assistente giudiziario) Area B, posizione economica 3, il secondo dipendente del Ministero delle Finanze in servizio presso la Commissione tributaria regionale per la Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, con qualifica di assistente tributario, livello 13, esponevano di aver fatto istanza, ciascuno all'amministrazione di appartenenza, per essere trasferiti a mezzo di mobilità esterna per compensazione ai sensi dell'art.7 del d.p.c.m. n.325/1988; a tal riguardo lamentavano che, nonostante la puntuale ed effettiva corrispondenza dei profili professionali e delle posizioni retributive rivestite nelle rispettive amministrazioni, riconosciuta dalla Commissione tributaria regionale per la Sicilia, che, infatti, aveva assentito allo scambio, il Ministero della Giustizia aveva respinto l'istanza con la motivazione che i richiedenti appartenevano a figure professionali diverse. Il tentativo di conciliazione, ritualmente notificato alle amministrazioni resistenti, era rimasto infruttuoso per decorrenza dei termini. Tanto premesso, i ricorrenti deducevano il diritto a beneficiare del trasferimento per mobilità compensativa, in forza della corrispondenza formale e sostanziale delle mansioni e dei profili professionali, e, conseguentemente, l'obbligo in capo alle amministrazioni datoriali di assentire alla mobilità. Convenivano in giudizio, pertanto, entrambe le amministrazioni, chiedendo al Tribunale una pronuncia dichiarativa del diritto al trasferimento, previa disapplicazione della nota del 5/9/2004 con cui il Ministero della Giustizia aveva comunicato di non accogliere l'istanza.
Costituendosi in giudizio il Ministero della Giustizia deduceva che la possibilità del trasferimento doveva necessariamente far riferimento per la sua applicazione ai contratti collettivi vigenti e, a tal proposito, la formulazione dell'art.27 c.c.n.l. 1998 non consentiva di riconoscere un diritto soggettivo al trasferimento in capo al dipendente che non sia condizionato dal consenso dell'amministrazione di appartenenza. L'insussistenza del diritto si evinceva, oltre che dal necessario previo consenso riservato all'amministrazione, dal difetto, tra le condizioni richieste dalla norma collettiva, del requisito dell'identità dei profili dei soggetti interessati, trattandosi di profilo amministrativo-contabile l'uno (A.) e di profilo amministrativo-giudiziario l'altro (A.). Anche argomentando ex art.7 d.p.c.m. 325/1988, ammesso che la disposizione fosse applicabile alla fattispecie, oltre a rendere necessario il nulla osta di entrambe le amministrazioni interessate il dato testuale, nel richiedere la corrispondenza dei profili professionali, non consentiva alcuna ipotesi di diversa e ulteriore interpretazione riconducibile ad un diritto propriamente inteso in capo ai ricorrenti. Per quanto precede, il Ministero resistente chiedeva il rigetto del ricorso e, in subordine, la compensazione delle spese di lite.
Ancorché ritualmente convenuto, il Ministero delle Finanze non si costituiva in giudizio e veniva, pertanto, dichiarato contumace.
La causa era istruita con i documenti prodotti dalle parti.
Autorizzato il deposito di note conclusive, all'odierna udienza, in esito alla discussione orale, la causa veniva decisa con il dispositivo steso in calce alla presente sentenza, del quale il tribunale dava pronta lettura in udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è fondato.
La decisione sulla sussistenza del diritto all'interscambio in capo ai ricorrenti richiede, in primo luogo, che si faccia chiarezza sulle disposizioni normative a cui fare riferimento per la disciplina applicabile, posto che il punto di vista delle parti è divergente al riguardo. Da parte dei ricorrenti si richiama l'art.7 d.p.c.m. n. 325/1988, ovvero la norma posta dal Ministero della Giustizia a fondamento del provvedimento di diniego del consenso alla mobilità; ma la stessa amministrazione, nel difendersi in giudizio, sostiene che la perdurante vigenza dell'art.7 in questione non esclude che la possibilità del trasferimento debba necessariamente far riferimento per la sua applicazione ai contratti collettivi vigenti.
Conviene anticipare sin d'ora che, per quanto le diverse fonti richiamate contengano disposizioni solo in parte sovrapponibili, la scelta per l'una o per l'altra non è destinata ad incidere sul diritto degli istanti alla mobilità, che in ogni caso sussiste; poiché, tuttavia, l'identità del risultato scaturisce unicamente dalle peculiarità del caso concreto, è il caso, comunque, di individuare il riferimento normativo pertinente alla fattispecie.
A tal proposito, si può affermare senza ombra di dubbio che è l'art.7 d.p.c.m. 325/1988 a disciplinare specificamente l'istituto della mobilità esterna per compensazione; pur nondimeno, una volta che il rapporto di lavoro pubblico è regolato contrattualmente (art.2, co.3, d.1gs. 165/2001), sulla norma già esistente prevale il contratto collettivo intervenuto a definire le procedure e i criteri generali per il passaggio diretto di personale fra amministrazioni diverse in attuazione dell'art.30 d.1gs. 165/2001; l'interscambio, d'altronde, altro non è se non un'ipotesi particolare del passaggio diretto, caratterizzata da un consenso a quattro soggetti, al posto del consenso trilatero insito nella cessione del contratto in cui consiste il passaggio diretto.
La disciplina applicabile al caso concreto va allora trovata nell'art.27 del c.c.n.l. del comparto Ministeri, cui appartengono ambedue i dipendenti da cui promana la domanda congiunta di mobilità, e tale disposizione, a ben vedere senza molto aggiungere a quanto già previsto dalla legge, ma rinviando alla contrattazione integrativa e decentrata a livello di singola amministrazione la disciplina degli accordi di mobilità, richiede per il diritto al trasferimento a domanda due requisiti: ­la corrispondenza di posizioni nel sistema classificatorio; - il consenso dell'amministrazione di appartenenza.
Il consenso dell'amministrazione di appartenenza non potrebbe non mancare, almeno da parte di una delle amministrazioni interessate, nel contenzioso instaurato per far valere il diritto alla mobilità; e nello specifico il consenso è stato negato dal Ministero della Giustizia alla dipendente A., mentre lo ha prestato il Ministero delle Finanze in favore del dipendente A.. Ma, ciò posto, sarebbe semplicistico ritenere che siccome per il trasferimento a domanda è sempre necessario il consenso dell'amministrazione di appartenenza, ove l'amministrazione non lo conceda non sussiste il diritto soggettivo al trasferimento. E' vero, invece, che la situazione giuridica soggettiva del dipendente che ha richiesto il trasferimento non può essere ritenuta di diritto soggettivo in ragione del fatto che il trasferimento è subordinato al consenso dell'amministrazione datoriale; ciò non toglie, tuttavia, che, non potendo concepirsi un diniego arbitrario del consenso, è senz'altro possibile al giudice sindacare il consenso negato, per appurarne la rispondenza delle motivazioni a ragioni oggettive di tipo organizzativo e ai principi di correttezza e trasparente gestione del rapporto di lavoro. In assenza, infatti, di validi motivi ostativi alla base del consenso negato si deve ritenere che il dipendente abbia diritto al trasferimento.
Il discorso, a questo punto, si ricollega all'altro requisito richiesto dalla nonna contrattuale e cioè la corrispondenza di posizioni nel sistema classificatorio. Sostiene il Ministero della Giustizia che la diversità dei profili professionali, amministrativo-contabile l'uno, amministrativo-giudiziario l'altro, non consente di ritenere che per i ricorrenti ricorra la corrispondenza di posizioni classificatorie, a nulla rilevando l'identità di posizione economica all'interno dell'area di appartenenza. Ma l'assunto non è condivisibile. Già in astratto, si osserva, non sono convincenti impostazioni che non tengano conto del cambiamento in corso nel lavoro pubblico privatizzato, improntato a criteri di flessibilità nella gestione del personale che stiano al passo con le esigenze connesse ai nuovi modelli organizzati. Riferito, poi, al contratto collettivo del comparto Ministeri l'assunto è oltremodo discutibile, non tenendo conto che nel comparto in parola i profili collocati su posizioni economiche diverse all'interno di ogni area di inquadramento sono tendenzialmente espressione di mansioni e funzioni contraddistinti da differenti gradi di complessità e di contenuto, mentre nell'ambito di ciascuna posizione economica le mansioni sono considerate di identico valore professionale e, dunque, fungibili in senso orizzontale; con la conseguenza che tra i livelli di una comune area di inquadramento sono configurabili le relazioni di superiorità che sono alla base della disciplina della tutela delle dignità professionale del lavoratore, sia privato (art. 2103 cod. civ.) che pubblico (art. 52 d.lgs. n. 165/2001), di fronte al ius variandi datoriale, mentre l'equivalenza delle mansioni resta legata al profilo espresso dalla posizione economica, all'interno della quale tutte le mansioni, in quanto di identico valore professionale, sono esigibili.
In tale ambito, condividere l'assunto del Ministero della Giustizia vorrebbe dire che, mentre il datore di lavoro può pretendere lo svolgimento di tutte le mansioni ascrivibili al livello organizzativo cui il dipendente appartiene, il prestatore di lavoro non avrebbe diritto al trasferimento a domanda, pur all'interno del comparto, al posto di altro lavoratore interessato allo scambio che, ancorché inquadrato nello stesso livello contrattuale, sia adibito a prestazioni di differente tipologia. Evidentemente, uno squilibrio di tale portata in favore dei poteri datoriali sarebbe inaccettabile; perché, se non si obietta che i criteri di flessibilità nell' organizzazione del lavoro possano servire a migliorare i livelli di efficienza dei servizi e in quest'ottica è logico che all'interno del livello retributivo le mansioni siano considerate fungibili in quanto professionalmente equivalenti, eppure un impiego unidirezionale del principio dell'interscambiabilità delle mansioni nell'ambito del profilo, solo quando torni utile al datore di lavoro, confliggerebbe con i principi di correttezza e trasparente gestione che governano il rapporto di lavoro.
Viceversa, quantomeno in tema di passaggio di personale tra amministrazioni all'interno del comparto il principio di equivalenza delle mansioni legato al profilo professionale espresso dal livello retributivo implica di dover riconoscere la corrispondenza di posizioni classificatorie nell'ipotesi di identità di posizione economica all'interno dell'area di appartenenza.
Il rilievo potrebbe essere troncante, posto che, se ciascun livello retributivo all'interno delle aree in cui si articola il comparto è espressione di una diversa qualifica, i ricorrenti in quanto entrambi inquadrati nella posizione economica B3 hanno la stessa qualifica e, quindi, si trovano nella situazione richiesta per la mobilità volontaria. Senonché, rimarrebbe il dubbio che ad altre conclusioni avrebbe condotto una diversa opzione interpretativa, che, senza fermarsi all'identità di livello retributivo all'interno dell'area di appartenenza, avesse valutato in concreto l'equivalenza di professionalità, sul piano dei compiti e delle attribuzioni assegnate ai due lavoratori e messe a raffronto. Conviene, pertanto, valutare anche questo aspetto, in modo, fra l'altro, da non lasciare in sospeso le premesse del ragionamento, che avevano anticipato come la scelta per l'una o per l'altra fonte regolamentativa della materia non fosse destinata ad incidere sul diritto degli istanti alla mobilità, che in ogni caso sussiste.
L'aggancio con le enunci azioni di apertura risiede nella formulazione dell'art.7 d.p.c.m. 325/88 che è diversa dalla disposizione contrattuale collettiva fin qui considerata, perché richiede la corrispondenza di profili professionali anziché di posizioni classificatorie e lo faceva prima che il rapporto di lavoro pubblico venisse contrattualizzato, quando l'ordinamento professionale era fondato sulle qualifiche funzionali. In quel sistema, articolato in livelli nell'ambito dei quali si distinguevano vari « profili » caratterizzati dalla tipologia della prestazione lavorativa, l'accertamento riguardante la corrispondenza dei profili professionali non avrebbe certamente potuto prescindere da una valutazione comparata della specifica qualità delle prestazioni lavorative. Ebbene, anche a voler riproporre i criteri classificatori di un tempo, fingendo di dimenticare che nell'ordinamento del lavoro pubblico contrattualizzato e, in particolare, nel comparto Ministeri il profilo professionale è espresso dal livello retributivo, si deve riconoscere che nel caso dei ricorrenti sussisterebbe la corrispondenza di posizioni inquadramentali; e difatti, la tipologia della prestazione lavorativa è la stessa, pacifica, oltre che documentalmente provata, essendo per entrambi l'adibizione alle mansioni di assistenza all'attività giudiziaria proprie del cancelliere. Il dipendente A., in particolare, risulta formalmente assegnato alle mansioni di Responsabile di segreteria, proprie - ai sensi dell'art.9 d.1gs. 546/92 - del personale che assiste la commissione tributaria secondo le disposizioni del codice di procedura civile concernente il cancelliere.
Chiusa questa digressione sulla vicenda lavorativa concretamente in atto, che vede i ricorrenti disimpegnare presso le diverse amministrazioni di appartenenza prestazioni qualitativamente corrispondenti, è il caso di tornare ai criteri classificatori introdotti dai contratti collettivi per sottolineare che nello specifico i profili professionali coincidono non solo in astratto, in ragione dell'identità di posizione economica nell'ambito della comune area di appartenenza, ma anche in concreto, i ricorrenti essendo del tutto interscambiabili senza costi organizzativi aggiuntivi per le amministrazioni datoriali. Diversamente da quanto sostiene l'amministrazione che ha negato il consenso, infatti, le competenze di carattere amministrativo-contabili non sono esclusive del profilo di assistente tributario, ma comuni al profilo di assistente giudiziario, che tra i suoi compiti annovera, appunto, quelli di segreteria e di collaborazione nell'attività amministrativa e contabile (cfr. d.p.r. 1219/1984 - Individuazione dei profili professionali del personale dei Ministeri in attuazione dell'art. 3 della legge 11 luglio 1980, n. 312).
Aver appurato che i ricorrenti rivestono posizioni classificatorie corrispondenti è stato necessario, visto che il consenso negato dal Ministero della Giustizia porta come motivazione l'appartenenza dei ricorrenti a figure professionali diverse, ma, in generale, non è sufficiente per affermare il diritto all'interscambio; in ragione del fatto che per il trasferimento a domanda è sempre necessario il consenso dell'amministrazione di appartenenza, un ambito di discrezionalità - entro il quale, peraltro, il sindacato del giudice non potrebbe estendersi ad apprezzamenti di merito – è riservato all'amministrazione medesima per le valutazioni di sua competenza, cosicché per ragioni che possono essere di volta in volta legate ad esigenze di organizzazione del personale o del servizio il consenso può essere legittimamente negato. Il riscontro che le posizioni professionali corrispondono è, però, sufficiente nel caso concreto, visto che anche in giudizio alla base del consenso negato è stato riproposto l'assunto della non corrispondenza delle posizioni classificatorie e così è rimasto ignorato da parte del Ministero della Giustizia l'onere di provare che non ha inteso acconsentire al trasferimento della dipendente A. per un valido interesse a mantenere in servizio la comprovata professionalità.
In assenza di oggettive ragioni ostative alla base del consenso negato, si deve ritenere il diritto della lavoratrice, così come dell'altro richiedente, al trasferimento.
Le spese del giudizio, liquidate in € 477,70 per onorari, € 485,45 per diritti, € 96,32 forfettario 10% spese generali, vengono poste a carico del Ministero della Giustizia in quanto soccombente, mentre nei confronti del Ministero delle Finanze, il cui operato non ha minimamente ostacolato le pretese dei ricorrenti, le spese processuali restano irripetibili.
P.Q.M.
Il Giudice del Lavoro,
definitivamente pronunciando, respinta ogni contraria istanza, eccezione e difesa nella controversia promossa da A. A. A. L. e A. L. contro Ministero della Giustizia e Ministero delle Finanze, dichiara il diritto dei ricorrenti a beneficiare della mobilità esterna per compensazione.
Condanna il Ministero della Giustizia alla rifusione delle spese del giudizio, liquidate, in favore dei ricorrenti, in complessivi € 1.059,47.
Così deciso in Agrigento il 21 settembre 2004
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Re: interscambio negato

Messaggioda manfroi » 27/06/2019, 18:07

E' arrivato il diniego ufficiale. La motivazione è che il sostituto non conosce il territorio come lo conosco io (siamo agenti di PM). Amen.
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Re: interscambio negato

Messaggioda gsalurso » 27/06/2019, 18:21

SaraTrib ha scritto:Credo l'amministrazione abbia libero arbitrio in merito.
Non è tenuta ad accoglierla pertanto non è tenuta a giustificare né motivare nulla,

Non sono d'accordo. Anche se adottato con i poteri del privato datore di lavoro, si tratta sempre di un provvedimento di una pubblica amministrazione che, pertanto, non può agire in modo arbitrario ma deve comunque attenersi ai principi generali dell'attività della P.A. legalità, imparzialita', pubblicita', trasparenza, economicità ecc.
Anche se il potere è discrezionale deve essere esercitato effettuando una scelta fondata sulla ponderazione tra l'interesse pubblico primario e gli interessi privati.
Per cui il dirigente deve rendere esplicito, in base al principio della trasparenza, quale interesse pubblico prevalente ha deteminato la sua decisione (in questo caso potrebbe essere, ad esempio, di carattere finanziario o organizzativo)
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